Oggi la figura dello scrittore non è più quella di una volta
e a chi scrive viene chiesto di partecipare, di essere attivo sui social
network, di volersi e sapersi promuovere sfruttando tutti gli strumenti
tecnologici, e non solo, che la società moderna mette a disposizione. Tra
reading, festival e presentazioni da una parte e social media dall'altra, la
comunità letteraria diventa sempre più presente, addirittura invasiva, e sono
in molti a chiedersi se, davvero, sia necessario essere parte di questa comunità
in continuo fermento. Necessario forse no ma, di sicuro, determinante e utile
sì.
Chi guarda con un misto di sospetto e preoccupazione non
solo ai social network ma anche a tutta quella serie di eventi a cui uno
scrittore di oggi è caldamente invitato a partecipare, si difende dicendo che
l’arte della scrittura è già di per sé un’ottima forma di comunicazione. In
quanto tale, l’arte dello scrivere renderebbe superflue certe “comparsate”, che
non solo rischiano di nuocere all'arte stessa ma, addirittura, la rendono quasi
banale, più povera, come se laddove si ospitano reading e incontri letterari,
le parole dello scrittore si degradassero, perdessero vigore. A questo punto
occorre, secondo me, chiedersi per chi e per quale ragione scrive uno
scrittore. Lo fa per sé o lo fa anche per gli altri, per comunicare qualcosa
agli altri, per instaurare con questi un legame e aumentare così il senso di
esperienza condivisa? Perché se scrivere è un’attività che va oltre il mero
“creare qualcosa” ma ha fra i suoi obiettivi quello di entrare in contatto con
gli altri, di creare una relazione di maggiore o minore empatia con chi legge,
allora è quantomeno auspicabile che uno scrittore voglia essere parte di una
comunità, una comunità in cui social ed eventi come presentazioni e reading
sono sì occasioni per promuoversi, ma anche momenti di confronto, discussione e
riflessione. Quando, allora, uno scrittore può (e deve) scegliere la
solitudine? Secondo me, quando pensa e partorisce la sua storia. Ecco, nella
fase di gestazione di un romanzo, lo scrittore ha bisogno di un locus amoenus,
personalissimo e possibilmente lontano dal chiasso mediatico e non solo, in cui
stacca letteralmente la spina e si dedica, come un artigiano paziente, alla
creazione. Per il resto, è doveroso superare timidezze e ritrosie ed “essere
social” per uno scrittore moderno. Non che la scrittura non sia, già di suo,
una forma sufficiente di comunicazione (per fortuna, i libri e le idee hanno
una vita un tantino più lunga dei tormentoni musicali dell’estate), ma in un
mondo in cui tutto è sempre più liquido e più rapido, è bene tenersi stretti la
propria fetta di terreno, ricordare agli altri di esserci e partecipare (magari
dosando la presenza), tanto a eventi letterari quanto in rete. Gli scrittori più
timidi o reticenti possono sempre contare sulla loro casa editrice che, con un
ufficio stampa efficiente, almeno risparmia la fatica della gestione dei social
media.
Da lettrice e traduttrice, guardo in effetti con più
interesse agli scrittori attivi che si fanno vedere alle fiere, ai festival, ai
reading. La partecipazione di uno scrittore a eventi letterari e in rete,
infatti, non può che rappresentare un vantaggio, per chi scrive e per chi
legge. Chi scrive ha modo di creare empatia con chi legge e stimolarne la
curiosità. Il lettore ha, invece, la possibilità di scoprire retroscena
inediti, di capire quanto dello scrittore c’è in una storia e di penetrare fra
le righe.
In definitiva, la solitudine e l’essere “poco social”
appaiono come un lusso e una scelta che possono permettersi solo gli scrittori
che hanno un nome, che si sono già costruiti e sono autori di successo. Tutti
gli altri devono abituarsi a convivere con e nella comunità, superare
timidezze, disagi e innocenti forme di snobismo perché, al giorno d’oggi,
esserci, farsi sentire, vedere e partecipare, sono, senza dubbio, parte del
gioco e facce del nuovo modo di essere autori.
Nicoletta Ferri
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